25 APRILE 1945- 25 APRILE 2025: OTTANTA ANNI SU CUI RIFLETTERE

25 Aprile

25 APRILE 1945- 25 APRILE 2025: OTTANTA ANNI SU CUI RIFLETTERE

C’è un aspetto che rende l’anno 1945 innegabilmente nuovo e che contribuisce a dare un volto ad un Paese sino ad allora ignorato, negato e umiliato;  una  fioritura intellettuale che  oscillava tra due poli: il vuoto lasciato dal fascismo e il compito della cultura nella costruzione di un’Italia nuova.

Così scrive Calamandrei, presentando il primo numero de Il Ponte, nell’ aprile del 1945: «Un ponte crollato, e tra i due tronconi delle pile rimaste in piedi, una trave lanciata attraverso per permettere agli uomini che vanno al lavoro di ricominciare a passare».

Ma aggiungeva: «Non c’è soltanto il proposito di ristabilire, nel campo dello spirito e al di sopra della voragine scavata dal fascismo, quella continuità tra il passato e l’avvenire che porterà l’Italia a riprendere la sua collaborazione al progresso del mondo. […] C’è soprattutto il proposito di ricostruire l’unità morale dopo un periodo di crisi, consistente essenzialmente in una disgregazione delle coscienze e nello spegnersi della fede nell’uomo, che fascismo e nazismo avevano contemporaneamente generato e riflesso. Perciò la fonte di ispirazione non può che essere rappresentata da quanti, nella Resistenza, rivendicarono il valore della vita essendo pronti a sacrificarla.»

Ottant’anni dopo, viene da chiedersi, cosa resta di quell’antifascismo?

Molto naturalmente, ma sono innegabili anche segnali di stanchezza, cedimenti  su posizioni celebrative, memorialiste, retorico decorative. Perché oggi da quel  passato si è come prolungato in una nuova forma tentacolare un fascismo ibrido, a volte difficile da decifrare e riconoscere  che non si mostra più solo nei simboli tradizionali ma si diffonde come buon senso pratico, come atmosfera.

Un fascismo rarefatto, diffuso, avvolgente che si infiltra nella vita collettiva nelle forme della paranoia. Una categoria del vivere quotidiano non solo dei regimi autoritari, ma latente anche nelle pieghe quotidiane delle democrazie.

È un impulso illiberale che si camuffa da misura protettiva, da difesa identitaria.

L’altro — il diverso — è percepito come minaccia permanente. “Aggredire per difendersi” rischia di diventare  in brevissimo tempo un efficace codice di orientamento comportamentale collettivo.

E così riemergono, con volti nuovi, i bersagli di sempre: ebrei, migranti, omosessuali, i lontani, i diversi.

L’odio non muore: muta, si trasforma.

Soprattutto  nel mondo digitale si riconoscono queste dinamiche inquietanti anche in forme violente.

Le piattaforme online generano nuove “piazze”: masse che si raccolgono intorno ai leader in una ritualità del consenso.

 Il “like” sostituisce l’applauso, crea l’illusione di partecipazione.

Ma il follower non partecipa: appartiene. Non pensa: aderisce.

Il nuovo fascismo non ha bisogno di marce o divise: bastano algoritmi e fedeltà. Si nutre di messaggi brevi, perentori, paranoici. Indica un nemico, promette protezione. È una sacralizzazione del consenso, un culto travestito da comunicazione.

Ecco perché oggi l’antifascismo deve essere vigilanza critica: sui linguaggi, sul potere, sulle nuove forme di appartenenza cieca. Non solo memoria quindi , ma anche  lettura attiva, del presente.

C’è un luogo che, ancora oggi, produce  anticorpi contro il rischio di un graduale prosciugamento culturale ed etico: la scuola.

Una scuola viva insegna a distinguere, a scegliere, a rispettare, a inventare, a riconoscere e rispettare l’altro.

La scuola è la casa dove ogni cosa è illuminata e anche un piccolo testo può essere un “barlume che vacilla” nella totalità del mondo.

Nel 1925, un anno dopo l’assassinio di Matteotti,  Piero Gobetti a 24 anni  ( morirà nel 1926 in Francia anche per le aggressioni subite dai fascisti)  pubblica Ossi di seppia di Eugenio Montale.

In un’Italia che imbocca la via del consenso cieco, Montale ci offre un altro sguardo.

Una poesia scabra, essenziale,  scavata, disillusa, ma capace di riconoscere — tra le macerie del reale nelle “  pozzanghere mezzo seccate” — “gli alberi dei limoni”. Un’immagine semplice, ma luminosa, quasi sacra. Non fuga, non illusione: resistenza.

I limoni, nella loro presenza quotidiana, diventano la metafora di qualcosa che resiste alla notte, alla aridità della vita.

Una speranza necessaria,  da inventare, da custodire nel linguaggio stesso di ogni giorno, nelle  parole nuove che riusciremo a far nascere. Una poesia della vita che non consola, ma sveglia.

E questo ci sembra  il compito della scuola: aiutare le nuove generazioni a riconoscere  “ l'odore dei limoni” .

E se la scuola avrà ancora questa forza, allora l’antifascismo non sarà solo memoria del passato, ma capacità ancora più forte di scrivere e sperare in un  futuro migliore.

Buona Festa della liberazione a tutti e tutte !

Il dirigente scolastico

                                                                                                                   Mario Bonini

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