10 Febbraio- Giornata del Ricordo 2023
GIORNO DEL RICORDO 2023
IL DOLORE, L’ABBANDONO, GLI ALTRI
di Riccardo Mauroner
Inevitabile iniziare questa breve riflessione sul "confine degli altri" in vista della ricorrenza del Giorno del ricordo inarcando un ponte tra quelle lontane tracce di memoria sui confini orientali tra Italia e Jugoslavia tra il 1941 e il 1945 e l'attuale guerra in Ucraina, la nuova lunga notte dell’Europa. Una riflessione che si impone non tanto per comporre idealmente un mosaico di chiaroscuri dispersi frammenti ma per cercare di trovare in narrative diverse allo specchio, la costante di drammatiche rivendicazioni etniche e nazionali contraddittoriamente frammiste alla nascita di strutture istituzionali di una Grande Europa unita e confederata. Un'Europa a due volti, dalle due geografie, una centripeta e l'altra centrifuga che mentre decreta a Bruxelles, l'agonia dello Stato nazione, ha assistito ed assiste alle più vertiginose frantumazioni etniche e regionalistiche nei lacerati territori di quelli che sembravano lontanissimi passati ex jugoslavi ed ex sovietici. Il passato dell'Europa è spesso inteso a frammenti, per temi e curiosità, senza cronologia e geografia, un luogo della mera narrazione, delle rivendicazioni occasionali e selettive. Eppure le crisi mondiali e i passaggi di epoca avvengono in Europa. Così è stato nel 1914 e nel 1939, così come nel 1789 e nel 1989, ed ecco, ora, il 2023, ad un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina. L’Europa non è quindi qualcosa di uniforme. Negli ultimi decenni, si è ormai d'accordo, che sia opportuno parlare di grandi regioni europee: Europa centrale, Europa orientale, Europa occidentale, Scandinavia, Europa mediterranea, Europa sud orientale o balcanica. In queste regioni europee le frontiere rappresentano una questione decisiva, sono molteplici, alcune molto antiche altre recenti altre perfino inventate, imposte, costruite a tavolino come in nessun altro continente rappresentano una geografia a sé fino a diventare un'ossessione uno dei mali incurabili dell'Europa tra le due guerre mondiali e anche dopo. È il caso dell'Ucraina che, collocata al margine occidentale della steppa euro asiatica, è stata per secoli una fondamentale via di accesso all'Europa. Una porta attraverso la quale sono transitate idee, merci, popolazioni… Un punto di incontro e di scontro tra diverse lingue, dialetti, culture e grandi imperi, ottomano, asburgico, russo che hanno lasciato la loro impronta e plasmato il paesaggio e “l'identità incerta di frontiera" di popolazioni e città (Odessa capitale del Mar Nero sorella gemella di Trieste porto imperiale sull'Adriatico) abituati da sempre a vivere tra confini e frontiere in perenne movimento, un'evoluzione lunga e tortuosa quella dell'Ucraina che ha incrociato tutte le speranze e le tragedie del ‘900. La Repubblica di Ucraina nata nel novembre del 1917, con la dissoluzione dell'impero zarista, non aveva tracciati i confini, date le circostanze belliche e la guerra civile, il massimo della aspirazione territoriale fu imposto dalla delegazione Ucraina alla conferenza di pace di Parigi del 1919, dove si propose una Ucraina che penetra nei confini polacchi fino a Lublino e Cracovia, che possiede una sezione nei Carpazi, che possiede Rostov e la regione del Kuban nel Caucaso pontico, oltre alla Crimea, la fascia litoranea della Bessarabia, fino alle foci del Danubio in territorio rumeno. In realtà, una configurazione stabile è stata raggiunta solo nella Repubblica socialista sovietica di Ucraina. Essa fu uno stato satellite dell'Unione Sovietica, finché fu ammessa nella Federazione nel 1922. Arrivano i terribili anni sovietici, quelli dei piani quinquennali e della collettivizzazione delle campagne, da un lato la industrializzazione del Donbass, e dall'altro l’Holodomor, la terribile carestia, con i milioni di morti nel 1932-1933, l'eliminazione da parte di Stalin dei kulaki, i contadini proprietari. Fame, eliminazione fisica e deportazione in Siberia, questa era la tragica modernità sovietica nelle campagne. E arriva il tempo dell'occupazione nazista che ha fatto dell'Ucraina uno dei luoghi di tenebra della Shoah, un capitolo di storia ancora aperto e non sempre adeguatamente studiato e collocato dentro il grande impianto architettonico della soluzione finale ebraica.
In piena crisi dell'Unione Sovietica, il 24 agosto del 1991, l'Ucraina dichiarò la sua indipendenza, che fu confermata dal referendum il 1 dicembre dello stesso anno. Il 26 dicembre 1991 si dissolse l'Unione Sovietica, per lo Stato ucraino, con i suoi 600.000 km², secondo solo alla Russia in Europa, rappresentava l'inizio di un progressivo avvicinamento alle istituzioni dell'Unione Europea. Va ricordato che il russo e l'ucraino sono state le lingue ufficiali nell'Ucraina sovietica, per questo è ampiamente diffuso il bilinguismo; lingua e identità nazionale non sono mai coincise e questo non è mai stato un problema, se non negli anni recenti: si poteva essere ucraini e parlare russo.
Il presente dell'Ucraina e lo stesso destino dell'Europa sembrano riavvolgersi sul proprio passato. La guerra di aggressione della Russia di Putin, dopo l'annessione della Crimea e l'occupazione della regione mineraria del Donbass, gli ha infatti riassegnato il ruolo di incandescente linea di faglia
attorno alla quale si scatenano allarmanti tensioni tra est e ovest in una pericolosa riedizione dei peggiori giorni della Guerra Fredda.
La liturgia bizantina con la quale Putin ha annunciato nel febbraio 2022 “l’operazione speciale" ha voluto rafforzare la sua immagine di leader zar che prende le decisioni da solo, o in una ristretta cerchia di dignitari, incuranti dei diritti e delle sofferenze della popolazione, simbolo di una Russia autocratica che non cambia mai e sulla quale è inutile informarsi. È questo il messaggio lanciato dall'uso ormai incontrollato e inconsulto del termine "ZAR" per definire la sua condizione. Se riferito alla continuità storica nell'esercizio autoritario del potere esso ignora che il Cremlino ha a disposizione strumenti capillari di controllo e repressione che mai nessuno zar ha potuto utilizzare; il filo di continuità con il passato porta piuttosto al totalitarismo staliniano. È sotto gli occhi di tutti che la guerra in corso sembra imporre quel rapporto fideistico tra popolo e zar che solo Caterina seconda e Nicola I riuscirono in parte a creare e che Stalin in altra forma portò a pieno compimento con la vittoria nella "grande guerra patriottica" contro il nazismo. Ma lo zar di riferimento di Putin è Pietro il Grande che in un discorso del 9 giugno 2022 ha elogiato come il grande conquistatore delle terre russe e nello stesso comizio Putin dichiarava di voler liberare la popolazione russofona dal genocidio perseguito da una banda di tossici fino a evocare l'ammiraglio Usakov, invitto eroe ai tempi di Caterina la Grande. Oggi lo zar Putin è alle prese con un problema ancora una volta secolare: l'arretratezza, l'immenso territorio e la natura multietnica della popolazione, allo stesso tempo risorsa e fattore di vulnerabilità.
"Io non sono un'eccellenza: sono il Duce!" diceva in tono irritato e perentorio Mussolini al comandante dei fascisti di Firenze che lo aveva chiamato con quel titolo eccessivamente costituzionale.
Sembra assomigliare molto a Mussolini Putin quando sfrutta in modo inappuntabile i servizi dello Stato per imporre al paese l’idolatria di sé medesimo per esaltarsi in una sorta di volontà titanica, miracolosa, provvidenziale. È innegabile anche che con l’invasione dell'Ucraina larga parte dell'Europa sembra aver scoperto l'uso della storia da parte di Putin: l'uso cioè di una narrazione grossolana del tutto infondata ma capace di legittimare politiche imperiali aggressive. E di far leva al tempo stesso su pulsioni e umori reali del paese: in questo caso su nostalgie di un grande passato acuite dalle delusioni e dalle sconfitte del presente. Una sfida basata sul massiccio e deformato uso politico della storia volto ad accrescere le distanze fra gli stessi paesi europei, volto a costruire disunione: e ad esso concorrono le più differenti narrazioni e celebrazioni pubbliche fin dai banchi di scuola.
Ancor prima, va aggiunto che quello stesso uso della storia come arma da guerra era stato centrale nei conflitti che avevano lacerato e dissolto l’ex-Jugoslavia. Veleni e fumi tossici da allora si sono attenuati solo in parte (vedi l'attuale tensione in Kosovo tra Albanesi e minoranza serba). Per altri versi si ha perfino l'impressione che pesi ancora "l'ombra del muro”, che sia ancora in piedi una sorta di cortina di ferro senza comunismo, che differenti vissuti diventino talora memorie incomparabili o comunque aree di reciproca estraneità e insensibilità. Eppure non si può costruire e ripensare una nuova Europa dei popoli se non nasce la capacità di "ricordare con l'aiuto di memorie altrui” per dirla con Paul Ricoeur.
Più in generale andrebbero conosciute molto meglio e messe continuamente a confronto le differenti visioni del passato che caratterizzano oggi il "continente europeo”. Inutile negarlo: se si esplorano le narrazioni pubbliche che seguono i differenti paesi, come si cerca spesso di fare ancora, è forte e preoccupante che le dissonanze e le divaricazioni siano cresciute e talora più delle sintonie. Né sembra crescere il sostegno a chi, nei paesi "sovranisti", è impegnato a promuovere il pluralismo e aperture sfidando discriminazioni, campagne mediatiche ostili. Eppure è un terreno decisivo: la costruzione dell'Europa dei popoli è nata e deve continuare a costruirsi all'insegna del “mai più guerre fra noi”.
Come non ricordare nel luglio del 1962, l'Europa che c'è nella cattedrale di Reims (il 7 maggio 1945 viene firmata la capitolazione della Germania) dove Charles De Gaulle e Konrad Adenauer partecipano insieme ad una solenne messa per la pace, nel percorso che l'anno dopo porterà al trattato franco-tedesco dell’Eliseo. E nel 1984 c'è l'Europa nel cimitero di Verdun, dove Francois Mitterrand ed Helmut Kohl si tengono per mano ricordando insieme i caduti di entrambe le parti. E Willy Brandt inginocchiato nel ghetto di Varsavia, nel dicembre del 1970, un simbolo indimenticabile, incancellabile del profondo ripensamento tedesco del proprio passato…
Nel 2020 la Repubblica Federale tedesca ha dedicato una moneta da due euro al 50º anniversario della genuflessione di Brandt a Varsavia accompagnata dal candeliere a sette bracci e
dall'evocazione delle vittime del ghetto: è questa la capacità di fare dolorosamente i conti con il proprio passato rivendicata come parte costitutiva della propria identità nazionale. Ma si potrebbe continuare con altri esempi di dialogo di memorie che hanno aiutato il superamento a volte faticoso di lacerazioni profondissime. Un ulteriore esempio c'è offerto dalla vicenda stessa del nostro confine orientale, con il difficile dialogo che si apre solo con il dissolversi della ex-Jugoslavia. Bisogna attendere il 1993 infatti, perché i ministri degli esteri di Italia, Slovenia e Croazia istituiscano due commissioni storiche bilaterali: quella italo-croata non iniziò neppure i suoi lavori, mentre quella italo- slovena li concluse nel 2000 con una relazione finale che meriterebbe di essere studiata ed esposta. Destinate però cadere nel vuoto, allora, anche per il protagonismo di una destra italiana che nell'infuriare delle guerre jugoslave era giunta fino a rivendicare il ritorno dell'Istria e di Fiume all’Italia.
È in quel clima di difficile riappacificazione che nel 2004 viene approvata la legge che istituisce "la giornata del ricordo", delle foibe, dell'esodo e della più complessa vicenda del confine orientale. Il doveroso superamento di una lunga e colpevole rimozione viene segnato così anche da messaggi provocatori, volutamente rissosi e patetici volti a riaccendere lo scontro anche violento su memorie spesso opportunamente pilotate e intossicate.
Il 1 maggio del 2004 la Slovenia entra in Europa assieme ad altri paesi ex comunisti, e quel giorno a Gorizia Romano Prodi, allora Presidente della Commissione europea, parla per la prima volta di atto di conciliazione fra i due paesi. Nella stessa direzione si muovevano i presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano assieme presidenti sloveno e croato. Fino all'intenso omaggio reso nel luglio del 2020 dai presidenti italiano e sloveno, Sergio Mattarella e Borut Pahor, ai luoghi del dolore di entrambe le parti. Atto idealmente proseguito di lì a poco con la scelta slovena di indicare Nova Gorica e Gorizia come città europee della cultura per il 2025: la "città della divisione" diventerà così simbolo di un futuro comune.
La storia di ogni confine ha sempre due facce: quella raccontata di là è sempre diversa da quella che si ascolta di qua. I confini in quanto luoghi mutano nel tempo, si costruiscono e si cancellano. È quello che è accaduto nella Venezia Giulia nel secondo conflitto mondiale dove si sono scontrati tre totalitarismi in una lotta senza quartiere. Furono i termini di un conflitto che trascendevano, nei loro motivi più profondi, il modesto ambito della vita regionale E si ispiravano alle correnti di idee e di passioni che hanno polverizzato per sempre un pezzo di storia e di memoria dell'Europa contemporanea. Una giornata come quella del ricordo ha l'obbligo di accostarsi a quel dramma, a lungo rimosso, con le voci della letteratura, della storia e della memoria: per cogliere il dolore, le speranze e le paure delle diverse vittime, italiane, slovene, croate, che hanno vissuto quell’incandescente e intricato crocevia; per inserire, per quanto sia possibile, quella lacerazione nel più ampio e tragico scenario del Novecento europeo.
Per questo una comunità, specialmente di frontiera, si forma solo per trasmissione, dove passa un "noi". Si tratta di una memoria accompagnata da quel carattere "utopico" che le consente di trasfigurarsi e di diventare anche proiezione verso un futuro. Ogni memoria è in parte costruita e ciò spesso impedisce l'esistenza di una storiografia assolutamente veridica. Si vive per davvero la reciprocità della vicinanza soltanto quando si trasmette qualcosa come un ponte e le sue arcate sulla corrente del fiume che scorre via. E' il destino di quella enigmatica terra/fiume della memoria sempre reinventata, e insieme riscoperta, lungo una linea di intenzionalità vitale che è onnicomprensiva e insieme selettiva, a vari livelli, ed è costituita da un sottofondo, da un brusio riverberante di innumerevoli voci, correnti anche contraddittorie; intrecciati campi di memoria che affiorano, si cancellano, riemergono ancora…
«Il ponte - ha scritto Maria Zambrano - ha le sue arcate, dette anche occhi. Arcate che si sorreggono e lasciano passare, aperta architettura. Occhi non perché vedano, ma perché lasciano vedere. Quello che si vede tra gli occhi di un ponte appare staccato e raccolto, come un pezzo di terra, cielo, pietre di elezione. Le arcate sono inoltre come passi, certi ponti sembra che avanzino o che siano rimasti quieti un istante in attesa di proseguire; il ponte è come l'immobilità di un movimento, o come un transito che essendosi compiuto non è tenuto a proseguire. La speranza ha i suoi passi, i suoi occhi che danno a vedere e che vedono essi stessi. Occhi di elezione, dato che scoprono e rivelano. E anche quello che vedono gli altri occhi, se è visto con gli occhi della speranza, si trasmette nella sua significazione e persino nella sua forma e figura. Sono passi, anche, che quando la speranza si manifesta intera non si annullano l'uno con l'altro, formano, come le arcate del ponte, una processione» (Maria Zambrano, I beati, edizione SE, Milano 2017, pp. 97-98).